Jacques Donguy
Brion Gysin ha parlato di ‘machine poetry’ anche se il suo I am that I am (1959) consiste di 120 permutazioni operate secondo un metodo matematico predisposto da Ian Sommerville; anche Italo Calvino scomoda il termine ‘macchina letteraria’, forse il primo a invocarla, questa macchina infernale capace di produrre versi, è stato proprio Jonathan Swift (1726) nel Viaggio a Laputa. Anche Nanni Balestrini nel 1963 produce Tape Mark I (1961)e Tape Mark II (1963) affidandosi alle buone sorti di un computer, ed Emmet Williams nel 1966, crea un poema al computer partendo dalle 101 parole più impiegate nella Divina Commedia dantesca.
Ora, l’interfaccia uomo-macchina colpisce ancora, il cyborg continua a fare adepti, come in questo lavoro, scritto da Donguy in minime unità semiotiche direbbe Umberto Eco, trattate al computer grazie all’intervento dell’informatico Guillaume Lozillon; la ragione per cui il loro poema, a differenza degli altri citati, è qui selezionato consiste nel fatto che Tag-surfusion viene eseguito in performance con grande coraggio e forte impatto sul pubblico, una sonorità che deriva direttamente da scelte operate dal software, umanizzata dalla voce del poeta, in costante duello con la presenza rumorica del Moloch computer.
(con Guillaume Lozillon digital processing)