W.Mark Sutherland
La parola d’ordine è abolire la parola. È l’intuizione che ebbe ai primi del Novecento Raoul Hausmann quando creò quei brevissimi poemi sonori composti solo da qualche sillaba scelta solo per l’energia fonetica intrinseca. Anche se ascoltiamo l’invocazione per Kruchonykh, qui non c’è traccia dello zaum russo perché prende il sopravvento una sconfinata scorribanda di sonorità anomale prodotte dallo strumento bocca qui davvero sfruttato in ogni aspetto della cavità orale (gengive, mandibola e naso) ed oltre ogni limite ivi compresa la saliva che a tratti diviene la vera protagonista. Non si tratta tanto di potenza polmonare quanto di uno scoppiettio labio-dentale con coinvolgimenti palato-gutturali che catalizzano l’attenzione come una cascata di spruzzi acustici al di fuori di ogni lessico e dizionario. A ben ascoltare un catalogo c’è perché la gamma fonica è quasi infinita ma essendo lo strumento umano e non artificiale, c’è una costante ripetitività, come giusto che sia. Assente è lo strumento tecnologico, nessuna alterazione del suono che è alla fin fine risulta un suono puro, quello emesso attraverso le corde vocali. Quindi un ritorno al primitivo che implica un certo disprezzo verso i media. Affabulazione non-sense ma facendo uso ed anche abuso del ritmo, succede che l’andamento tonale diviene una guida in questo instancabile ed a-logorroico labirinto. L’aforisma di Jonas Mekas, «con il ritmo esprimiamo ciò che non riusciamo ad esprimere con i dettagli» ha centrato il cuore della questione pur riferendosi al film d’avanguardia. Ciò che colpisce è l’irriducibile coerenza nel restare sempre e comunque dentro quell’enorme caleidoscopio di botti a non finire definiti così bene da Martinet, sto pensando appunto ai cosiddetti click, non molto distanti dalle onomatopee anche se qui compaiono in maniera molto minore rispetto alla sequela gargantuesca di ghirigori.