Beth Anderson
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Con questa gentile poetessa newyorchese si tocca con mano l’abisso che separa la scrittura poetica da quella orale e vocale, io aggiungerei vocorale perché nei suoi lavori lei passa indistintamente dal registro di langue come la conosciamo dai dizionari a quello di parole, ovvero libere e personali interpretazioni frutto di triturazioni e setacci del tessuto linguistico codificato.
Risulta chiaro che il punto di partenza sono due frasi di per sé abbastanza significative, I wish I were single again e If I was a poet. A livello scritto si potrebbe procedere secondo il metodo joyciano della parola-valigia ma non si andrebbe molto più in là perché con la scrittura non si spezza la barriera della scrittura. Nella vocoralità, invece, la voce consente anzitutto la creazione di un motivo assertivo dove predomina una forte scansione timbrica. Si ricollega al suo essere danzatrice perché entrambi i poemi suggeriscono una esecuzione coreutica nella direzione della new dance. Poi intraprende una sorta di permutazioni spaziando a briglia sciolta sugli elementi del segmento frastico, e attraverso alterazioni sostanziali giunge fino all’estrema riduzione del singolo fonema, che, continuando con la similitudine danzante, verrebbe tradotto alla fine in immobilità assoluta. Davanti a questi poemi ci si spalanca un ventaglio di possibilità non essendo essi legati al vincolo della scrittura. Nel primo, la frase si spezzetta in lacerti dalla pronuncia dura e autoritaria, ricorda gli idiomi nordici, si liquefa in nome di quella beata nostalgia della giovinezza quando l’autrice era single. Nel secondo, durante il tourbillon sempre più accelerato e confuso emergono say e yes a testimoniare l’ostinazione del diventare poeta. Ho visto Beth performare dal vivo nel recente festival di San Francisco (Other Minds Festival, 2018) con il supporto di una batteria. Riconosco che è molto più efficace quando il suono dei tamburi è reso dalla ripetitività vocorale andante molto sostenuta, mentre sui suoi lavori, si estende un’aura di armonia, di salute cosmica che gli viene, come suggerisce Larry Wendt, dal fatto di essere un’astrologa di professione.